In questa occasione incontriamo Federico De Nardo, facilitatore collaboratore di FacilitAmbiente, nonché agronomo specializzato in contesti tropicali e subtropicali, con un dottorato in ingegneria ambientale. Federico ha lavorato su numerosi progetti ambientali di pianificazione e progettazione, oltre che in Italia, anche in Africa e Medio Oriente, trattando temi come compostaggio, produzione di biogas, e riciclaggio. Esploriamo come il suo percorso lo abbia avvicinato alla facilitazione e come la sua esperienza all’estero si intrecci con le pratiche di partecipazione in Italia.
Federico, come ti sei avvicinato alla facilitazione?
Mi sono specializzato in progetti di cooperazione internazionale come agronomo e ingegnere ambientale, un percorso che mi ha portato a lavorare all’estero in contesti molto diversi. La mia prima esperienza è stata in Somalia, dove ho svolto la tesi.
In questi scenari, la necessità di interagire con gli attori locali è ancora più forte, non avendo conoscenza del territorio. Diventa essenziale comprendere con chi relazionarsi e in che modo farlo. Questo mi ha spinto a sviluppare metodologie per approcciare gli stakeholder in maniera più efficace ed efficiente, integrando pratiche di facilitazione.
Oltre alle differenze culturali e linguistiche, in questi contesti possono emergere barriere ancora più profonde, che influenzano la gestione dei progetti. In alcune situazioni, ad esempio, è necessario rivalutare il proprio approccio e riconsiderare alcuni valori e principi normalmente adottati, come quelli legati alla gender equality. Tutto questo porta a riflettere attentamente sulle metodologie e sugli strumenti da adottare per interagire con le comunità locali. L’obiettivo è infatti che le soluzioni e le attività proposte siano ‘landed’, realmente radicate nel contesto.
Parlando di questa consapevolezza, ti sarà capitato anche di trovarti in situazioni in cui una tecnica o un approccio non ha funzionato?
Sì. Ho iniziato la mia carriera nel mondo delle ONG e delle Nazioni Unite, organizzazioni che cercano di lavorare a stretto contatto con i beneficiari e gli attori locali, promuovendo approcci dal basso. Tuttavia, spesso non hanno una reale conoscenza dei processi di partecipazione e facilitazione.
All’inizio ho commesso diversi errori, anche perché provenivo da un percorso di studi molto tecnico. C’era l’intenzione di adottare pratiche di facilitazione, ma senza una comprensione approfondita di queste dinamiche si rischiava di coinvolgere gli attori sbagliati o di utilizzare approcci poco adeguati, con il rischio di generare microconflitti.
Ad esempio, in Somalia lavoravo per il World Food Programme e mi occupavo della distribuzione di cibo donato dai vari Paesi. Ogni volta che questa distribuzione avveniva, il prezzo del grano al mercato locale subiva variazioni, perché i commercianti sapevano del nostro intervento e ne anticipavano l’impatto. Questo dimostrava come l’approccio adottato fosse parziale: sarebbe stata necessaria un’analisi più approfondita degli attori in gioco, coinvolgendo anche i fornitori locali per mitigare effetti indesiderati sul mercato.
Arrivando come ONG esterna su un territorio, quale atteggiamento riscontravate nei vostri confronti?
Sicuramente uno dei vantaggi di operare in un Paese straniero è la percezione di imparzialità. Non essendo parte delle dinamiche locali di clientelismo, nepotismo, inimicizie o favori, si può godere di una posizione più neutrale rispetto agli attori già radicati nel territorio. Spesso, inoltre, le parti coinvolte tendevano a nascondere tensioni o conflitti interni durante la gestione dei progetti, e questa distanza “esterna” permetteva di giocare la carta della fiducia.
Tuttavia, integrare tutti gli attori in questi contesti resta complesso. Lavorando con fondi pubblici, il primo interlocutore è quasi sempre il governo o le autorità locali, con cui si costruisce la mappatura degli stakeholder. Il rischio, però, è che vengano quindi proposte solo figure vicine a queste istituzioni, escludendo chi potrebbe essere contrario alle attività previste. Eppure, è proprio nel confronto con tutte le parti, comprese quelle in disaccordo, che emergono soluzioni innovative e condivise: il riconoscimento del diritto di avere un’opinione diversa, il famoso “right to say no”.
Individuare questi attori, però, non è semplice. La scarsa conoscenza del territorio, della comunità, delle dinamiche culturali e della lingua può portare a una visione parziale del contesto, rendendo più difficile sia l’interazione che la comprensione. Di conseguenza, diventa più complesso ottenere un quadro realmente esaustivo ed eterogeneo degli attori coinvolti.
Quindi, tra gli aspetti che cambiano rispetto al lavorare in Italia, c’è il fatto di non conoscere il contesto in cui si opera. Che altre differenze hai notato?
Sono sempre riuscito a realizzare processi partecipativi approfonditi grazie ai fondi esterni. Tuttavia, ho osservato che, quando queste condizioni non sono presenti, in Italia, la scarsità di risorse e di tempo può creare dei problemi. In molti dei pochi progetti facilitati a cui ho partecipato, e parlando con chi ha esperienza in questo ambito, emerge frequentemente la necessità di ridurre la durata dei percorsi di facilitazione, ma questo spesso compromette la qualità del processo stesso.
Ad esempio, in alcuni progetti su cui ho lavorato, come la progettazione partecipata per la realizzazione di piani di gestione dei rifiuti per piccole municipalità, ho notato che, mentre la fase di progettazione era stata condotta in modo elaborato e partecipativo, la messa a terra delle attività da parte delle ONG è avvenuta senza un’adeguata facilitazione, limitandosi a qualche workshop. Questo ha minato l’efficacia del sistema che avevamo creato. Purtroppo, questo è un modo di lavorare abbastanza comune in Italia.
Inoltre, c’è una tendenza diffusa, sia tra i locali che tra le ONG, a pensare che le persone non siano realmente interessate a partecipare ai percorsi facilitati. Al contrario, nei progetti che ho seguito, finanziati e con una progettazione ben definita, la partecipazione è stata molto alta.
Quindi c’è una netta differenza tra i progetti finanziati, che ti obbligano a rispettare determinati standard e attività ben realizzate, e quelle forme di facilitazione di facciata che spesso si incontrano anche in Italia. La facilitazione, infatti, significa riconoscere la possibilità di adattarsi alle esigenze e alle risposte dei partecipanti e avere la possibilità di influenzare le decisioni. Se non sei disposto a cambiare, non stai facendo facilitazione.
Quali metodologie e strumenti di facilitazione adotti nei tuoi progetti di cooperazione internazionale?
Sempre mappe, modelli e strumenti legati alla visualizzazione del territorio, incluse anche la realizzazione di plastici. Ad esempio, per un progetto in una regione montuosa, dovevamo cogliere le caratteristiche specifiche del luogo e identificare i punti di interesse. In questo caso, abbiamo adottato la metodologia del landscape character assessment, che mira a rivalutare il paesaggio non secondo i tradizionali standard paesaggistici. L’obiettivo è identificare gli elementi che hanno un valore paesaggistico o culturale per la comunità locale, come una curva panoramica da cui si vede il mare o un luogo di incontro informale.
Anche nella Striscia di Gaza, quando abbiamo progettato circa 340 abitazioni popolari, abbiamo adottato un processo partecipato. Nei percorsi lunghi, cerco sempre di creare un punto focale, un elemento che mostri chiaramente che c’è un processo in corso. Lo paragono sempre alla fiaccola olimpica, che si accende e rimane come simbolo visibile di un evento in corso nella città. Così durante il processo partecipato per la progettazione, abbiamo dipinto di rosso un intero palazzo distrutto dall’attacco israeliano del 2014. Proprio lì, tra le macerie, si tenevano le riunioni con i cittadini. L’edificio, situato all’ingresso della città di Gaza, nel quartiere di Al Nada, era visibile da lontano, diventando un simbolo del percorso in atto. In seguito, abbiamo scoperto che un cantante hip hop gazawo gli ha dedicato una canzone e un video intitolati “Ahmar” (rosso).
Anche per la progettazione in Italia utilizzi strumenti simili? Hai sperimentato anche approcci diversi?
Una volta ho utilizzato Minecraft in un progetto in cui mi sono occupato della valutazione del percorso partecipativo, un aspetto che spesso viene trascurato, ma che invece è molto importante. Il progetto riguardava la riqualificazione di spazi pubblici in condomini residenziali popolari nella periferia di Bologna. Il Comune aveva stanziato dei fondi per avviare un processo partecipato. Il progetto di riqualificazione era già stato sviluppato e approvato; tuttavia, avviarono un percorso partecipativo per capire se fosse possibile modificarlo in base alle esigenze dei residenti.
L’idea di usare Minecraft era nata da una proposta di qualche anno prima di UN-Habitat, che lo aveva suggerito come strumento per la pianificazione urbanistica. L’associazione di architetti coinvolta nel progetto bolognese ha deciso di riproporlo in questo contesto. Così, sono stati coinvolti ragazzi del quartiere. Io ho seguito l’intero processo: prima c’è stata una fase di formazione per i ragazzi, poi abbiamo studiato il territorio con le mappe. Un problema che spesso emerge infatti è che, quando si guarda una mappa, è difficile percepire realmente le dimensioni dello spazio.
Dopo, grazie a Minecraft, i ragazzi sono stati in grado di riprodurre questi spazi comuni, esplorandoli e proponendo modifiche. È stato sorprendente vedere le idee che hanno avuto e quanto siano state inclusive le loro proposte.
L’esperienza di Federico De Nardo evidenzia come la facilitazione e la cooperazione internazionale siano strettamente legate nella realizzazione di progetti territoriali. Operare in contesti complessi, segnati da barriere culturali, linguistiche e sociali, impone la necessità di un approccio flessibile e adattabile. Il suo percorso dimostra che l’efficacia della facilitazione dipende non solo dagli strumenti, ma dalla capacità di ascoltare, collaborare e rispondere alle esigenze delle comunità. Questi insegnamenti sono essenziali, non solo nei progetti internazionali, ma anche per sviluppare pratiche partecipative più inclusive e sostenibili in Italia. In questo modo, si promuove una vera cultura della cooperazione.