Dal Design Thinking alla Facilitazione: il Percorso di Maria Cristina Lavazza

Dal Design Thinking alla Facilitazione: il Percorso di Maria Cristina Lavazza

Oggi ascoltiamo la voce di Maria Cristina Lavazza, facilitatrice iscritta all’elenco FacilitAmbiente, ma non solo! Maria Cristina è infatti una facilitatrice poliedrica, con un percorso formativo e professionale che spazia dall’indologia e la biblioteconomia all’architettura dell’informazione, fino al design thinking. Abbiamo deciso di intervistarla, per poter conoscere meglio come queste sue competenze ed esperienze si intrecciano con la facilitazione e come queste discipline si influenzano a vicenda.

Maria Cristina, ti sei formata come indologa e specializzata in biblioteconomia; ora ti definisci architetta dell’informazione e ti occupi di  human centered design. Raccontaci di più del tuo percorso e di come si intrecci con la facilitazione.

Ho una laurea in filosofia orientale e sono indologa. Successivamente mi sono specializzata in biblioteconomia, ovvero nelle scienze degli archivi e delle biblioteche, dove ho iniziato a lavorare. Sistemando libri e catalogando materiali, proprio mentre cominciava a nascere internet, ho capito quanto fosse cruciale mettere a sistema i contenuti e le informazioni. Da lì sono passata alla comunicazione digitale, progettando siti e tassonomie per portali.

Tuttavia, quel lavoro mi stava stretto: avevo esaurito tutte le idee, sia quelle buone che quelle cattive, come dico di solito. Ho così scoperto il mondo della user experience e l’importanza di coinvolgere le persone nella progettazione. Inizialmente mi limitavo a coinvolgere i colleghi, poi ho iniziato a includere anche gli utenti finali. Oggi lavoro meno nella progettazione digitale, ma porto sempre nella facilitazione l’idea di costruire qualcosa insieme, che sia un processo, un prototipo o qualsiasi cosa che aiuti le persone a vedere e visualizzare le proprie idee”.

Ora ti occupi di Human-Centered Design, un approccio che si basa sulla progettazione coinvolgendo direttamente le persone per comprendere al meglio le loro esigenze e necessità?

“Sì, lo Human-Centered Design afferma che è fondamentale coinvolgere le persone per comprendere i loro bisogni ed emozioni, al fine di sviluppare prodotti e processi più adatti. Un aspetto importante nella progettazione è infatti superare pregiudizi. Non conosciamo le esperienze degli altri, quindi dobbiamo permettere loro di mostrarcele e parlarcene concretamente. Per fare una progettazione realmente umana, è necessario conoscere e entrare nell’esperienza di chi vive quella realtà, osservando le piccole cose quotidiane. Non si tratta più di progettazione “a tavolino”, ma di partire dai feedback degli stakeholder coinvolti. E’ entrando nel mondo delle persone che si fa vera innovazione. Io utilizzo i principi del Design Thinking (Empatia, Definizione, Ideazione, Prototipazione, Test), per creare un prodotto su misura per le persone, creando qualcosa che risponda davvero alle loro esigenze, e risparmiando in tal modo anche tempo e risorse.

Raccontaci più concretamente una tua esperienza in cui hai applicato questo metodo.

Ho avuto l’opportunità di collaborare con numerose aziende, sia italiane che internazionali, tra cui IDEO, il creatore del Design Thinking. Ad esempio, quando ci rivolgiamo a un pubblico anziano, tendiamo a sviluppare soluzioni basate su convinzioni predefinite, immaginando che siano poco interessati al digitale. In realtà, molti di loro non vogliono sentirsi esclusi da questa dimensione, ma cercano strumenti digitali progettati su misura, che rispondano in modo specifico alle loro esigenze. L’ approccio dell’Human-Centered Design consente di superare preconcetti e stereotipi, spesso inconsapevoli, che influenzano il modo in cui progettiamo.

Un’altra esperienza significativa è stata quella di lavorare con pazienti nel settore farmaceutico. Tuttavia, è importante riconoscere i limiti del proprio punto di vista: non posso sapere cosa significhi vivere come una persona trapiantata. Solo chi affronta questa realtà può descrivere i propri bisogni, condividere esperienze e trasmettere il bagaglio emotivo che porta con sé. A volte, basta osservare come una persona vive e organizza la propria quotidianità, per comprendere meglio il suo mondo. Sono momenti profondamente toccanti, che nascono dal confronto diretto con problemi reali e concreti”.

E il tuo percorso di studi ha influenzato il tuo approccio alla facilitazione e il tuo rapporto con le persone?

“Tantissimo. L’approccio etnografico supporta questo processo: quando si entra in contatto diretto con la vita delle persone, si acquisisce una visione diversa e più comprensiva. Nonostante anche io abbia commesso errori e a volte mi sia approcciata in modo pregiudiziale, è fondamentale essere aperti, compassionevoli ed empatici. Se le ascolti, sono le persone stesse a darti le soluzioni. Ad esempio, lavorando nel sistema medico, non si collabora esclusivamente con i pazienti, ma anche con il personale sanitario. Questo vale per la progettazione di strumenti chirurgici come per lo sviluppo di sistemi di prenotazione ospedaliera.  Non bisogna focalizzarsi unicamente sulle trasformazioni spesso celebrate, come quella digitale, quando ciò che l’utente richiede può essere qualcosa di molto diverso. Ci sono situazioni in cui si vorrebbe sviluppare una serie di app per i pazienti, ma ciò di cui hanno realmente bisogno è un supporto diverso, come la presenza di un caregiver. Questo è particolarmente importante in ambiti così rilevanti per le persone, ma anche in contesti come le banche o le assicurazioni, per esempio, al fine di rendere questi servizi più accessibili e umani. Cambiare prospettiva e utilizzare la facilitazione permette di far emergere soluzioni autentiche.”

Ora ti occupi anche di insegnare ad imprese e associazioni questa modalità di agire, lavorando con le persone per la costruzione di percorsi partecipativi e Human-Centered Design?

“Sì, assolutamente. Insegno principalmente Design Thinking o comunque processi interni, ma sempre in una forma che non è più quella tradizionale da cattedra. Il mio approccio è orientato all’azione e alla sperimentazione. Lavoriamo insieme su una sfida, cercando di capire e condividere ciò che ci appartiene, per vedere come pian piano prenda forma. L’obiettivo principale è fornire strumenti pratici affinché chi partecipa possa, fin dal giorno successivo, iniziare a mettere in pratica le piccole cose e applicarle concretamente nel proprio contesto. Infatti, gli ultimi progetti di cui mi sono occupata avevano come filo conduttore l’idea di sentirsi gruppo. Capita sempre più spesso che realtà diverse continuino ad agire secondo vecchi modelli, e l’idea di trovare strumenti che creano cose comuni per far lavorare tutti insieme e farci sentire come un gruppo è indicativa del tipo di sviluppo che queste realtà stanno vivendo. È un segno di crescita. ”

Insegnando tecniche di facilitazione, oltre che a praticarla direttamente, hai acquisito nuove esperienze e consapevolezze a riguardo?

Ogni volta è un’avventura nuova e sorprendente. Ho il doppio ruolo di insegnante e osservatore: sono sempre etnografica, quindi osservo le dinamiche interne. Solitamente, i collaboratori sono i più entusiasti di questi cambiamenti, ma è fondamentale che ci sia un forte endorsement da parte dei vertici affinché funzioni. A volte, però non sempre c’è una reale volontà di cambiamento profondo. Si vede chiaramente la difficoltà che c’è nel uscire dai propri modelli. C’è una grande paura da superare, rispetto al cambiamento. Bisogna vedere quanto le persone sono pronte al cambiamento e quanto pensano di esserlo. In alcuni casi, si spaventavano e facevano marcia indietro perché pensavano che l’impatto sarebbe stato minore. La paura del cambiamento va accompagnata passo dopo passo, e bisogna inserirsi in modo relativo e prepararsi ad adattarsi per comprendere quanto si può spingere sull’argomento. Non è sempre facile discernere queste dinamiche.”

E in questi casi, come hai gestito il progetto avviato?

“In alcuni casi ho dovuto lasciare che andasse così, mentre in altri ho cercato di trovare micro-situazioni in cui fare piccoli interventi, rimodulando alcuni obiettivi e riprogettando le cose insieme, senza forzare il cambiamento.” 

Le normative europee e internazionali sottolineano sempre di più l’importanza del coinvolgimento degli stakeholder nelle decisioni, tanto per le imprese quanto per le istituzioni. Sei mai stata chiamata dalle imprese per svolgere pratiche di stakeholder engagement in seguito a queste normative?

No, non mi è capitato direttamente. Le aziende mi chiamano quando capiscono che devono farlo, ma non sanno come. In questi casi, propongo diversi tipi di coinvolgimento. La consapevolezza delle aziende e delle istituzioni su questo tema sta crescendo sempre di più, soprattutto in situazioni specifiche come bandi o iniziative regionali. Ad esempio, il governo inglese ha fatto della partecipazione una priorità, creando task force apposite per ogni servizio al cittadino. In questi casi, si assicura che il servizio di facilitazione venga implementato, focalizzandosi anche su categorie specifiche di persone, considerando un pubblico sempre più eterogeneo: nuove generazioni, nuovi cittadini. Questa progettazione sociale è fondamentale per far progredire il paese”.

Il valore dell’integrazione tra discipline

Grazie alle parole di Maria Cristina Lavazza possiamo vedere come un percorso multidisciplinare possa diventare una risorsa unica per la facilitazione. Dall’indologia al design thinking, passando per la biblioteconomia e l’architettura dell’informazione, il suo approccio ci invita a ripensare i processi collaborativi evidenziando quanto sia cruciale costruire spazi di partecipazione autentica, dove persone e idee possano incontrarsi per generare soluzioni condivise e umane.