Not In My Backyard (NIMBY) è l’espressione con cui si fa riferimento a quei comportamenti contrari alla realizzazione di opere di interesse pubblico. Tale contrarietà è motivata dagli effetti negativi che l’opera potrebbe avere sul proprio territorio. L’espressione, traducibile nell’italiano “non nel mio giardino”, fa appunto riferimento alla volontà di proteggere il proprio territorio da un attacco esterno. Oggi ascoltiamo il punto di vista di Mario Doldi, Senior Consultant in tema di Nimby e Accettabilità Sociale.
Da dove nasce il tuo interesse verso il tema della facilitazione e la gestione dei conflitti ambientali?
Il mio interesse verso il tema della prevenzione e gestione dei conflitti ambientali sui territori viene da lontano, nel contesto di attività svolte all’interno di organismi politici e consigli di quartiere elettivi. Un interesse che si è irrobustito durante gli studi di Scienze Politiche. E successivamente grazie al magico incontro con Eni. E’ stata un’esperienza entusiasmante durata vent’anni, vissuta in prima linea fra il permitting e la necessità di favorire un rapporto meno conflittuale con le comunità locali interessate dai progetti. Insomma, una corsa senza fermarsi mai e che continua ancora oggi con il ruolo professionale di Senior Consultant.
Perché il Nimby è così esteso?
Secondo Chicco Testa, la cosiddetta sindrome Nimby (non nel mio giardino) ha assunto ormai le caratteristiche di una “vera emergenza nazionale. Non c’è praticamente nessuna tipologia di opera o di impianto che non trovi l’opposizione di comitati di vario tipo” (Il Foglio, 23 gennaio 2020). Perfino un progetto che impiega le migliori tecnologie disponibili sul mercato e crea nuovi posti di lavoro, rischia l’insuccesso a causa di tale fenomeno. Con l’effetto di produrre a cascata una serie di gravi ripercussioni sui vari iter autorizzativi, che vengono zavorrati con richieste di ulteriori dati tecnici e Conferenze di Servizi senza fine. Cercare di comprendere detto fenomeno oppositivo è la premessa per tentare di porre fine o ridurre questa deriva che dura ormai da circa un trentennio. Consolidando la sua espansione negli ultimi 15-20 anni, in un crescendo inarrestabile. Procediamo allora senza avere la pretesa di esaurire l’argomento. In primis con un occhio ai cambiamenti avvenuti in questi ultimi decenni sul piano sociale, politico e dei media. Viviamo, difatti, in un’epoca dove fasce di cittadini sono sempre meno disposte a dare credito agli esperti, attratte dalla narrazione che circola sui social network. Spesse volte a scapito della ragione e dei fatti. Un fenomeno questo analizzato nel saggio di William Davis “Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo” (E. Einaudi). Un’impostazione che fa pendant con “l’Italia irrazionale” descritta nell’ultimo rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese. Resta da aggiungere il progressivo calo di fiducia nelle istituzioni, proprio mentre dal basso sale la spinta di cittadini e gruppi sociali, per essere ascoltati e influire sulle scelte che riguardano il territorio in cui vivono. Il contraccolpo di tale esclusione e il calo di fiducia verso le istituzioni e l’expertise, trova come unico sbocco la formazione dei comitati per il No.
Come mai le imprese e le Organizzazioni stentano a trovare un rimedio?
Per comprendere meglio questo aspetto fondamentale, cito un caso scuola accaduto due anni fa a Valmadonna; una piccola frazione di Alessandria di circa 2.000 abitanti. Ecco uno stralcio di un loro comunicato: “siamo una comunità che si è mobilitata e raccolta in comitato dopo aver saputo, per caso, di un progetto per la realizzazione di un impianto di produzione di Biogas a Valmadonna”. Da ciò si evince che l’aver appreso “per caso” dell’esistenza del progetto, la dice lunga sul fatto di essersi trovati di fronte a un atteggiamento poco rispettoso, a sua volta, foriero di indignazione e risentimento. Con la consapevolezza di una decisione presa sulla loro testa. È questo vissuto a dare forza e vigore alla protesta, dovuta alla percezione dei gravi rischi per l’inquinamento della zona, la compromissione delle attività turistiche e del paesaggio. Vale la pena segnalare su Facebook, l’appello accorato del comitato di cittadini postosi alla testa delle contestazioni locali: “il problema non è solo di Valmadonna, alessandrini unitevi a noi!” E così avvenne. Dopo oltre un anno di battaglie, proteste di piazza, raccolte di firme, volantinaggi, una pagina social, manifestazioni con testimonial, la contrarietà della Provincia e del Comune di Alessandria, l’azienda proponente getta la spugna. Questo caso scuola aiuta a comprendere meglio l’importanza strategica legata al consenso delle comunità ospitanti. E pertanto a ripensare il modo in cui i soggetti proponenti si relazionano con il territorio.
Come mettere in campo lo stakeholder engagement?
E’ necessario evitare “opere calate dall’alto” perché si mettono le comunità ospitanti davanti a un fatto compiuto, foriero di distanze siderali tra imprese e attori locali. Quando invece quest’ultimi, come abbiamo già raccontato, chiedono all’azienda di essere ascoltati e di influire sulle decisioni che riguardano il territorio in cui vivono. Siamo di fronte a un’aspettativa di tipo partecipativo, la quale se non soddisfatta si trasforma in pura e semplice opposizione. È pertanto cruciale per l’impresa proponente incanalare, fin dai primi passi del progetto, il bisogno di contare degli Stakeholder locali in modo tale da identificare, insieme, soluzioni il più possibile condivise. E costruire al contempo fiducia e alleanze sul territorio. Perciò, la collaborazione tra impresa e comunità è la bussola per prevenire e ricomporre i conflitti locali e le annesse fratture sociali. Ciò vale in particolare per le aziende grandi, medie e piccole, attive in ambito di CSR.