Stakeholder engagement, partecipazione, coinvolgimento delle comunità … dietro un vocabolario sempre più ricco di espressioni e sfumature, non è semplice fare chiarezza. il Blog di FacilitAmbiente ha quindi chiesto lumi ad un altro esperto, Alberto Marzetta, partner di Amapola Società Benefit, società di consulenza specializzata in sostenibilità e comunicazione, specialista in stakeholder engagement, innovazione sociale, reporting. Alberto è inoltre formatore, facilitatore e speaker.
In base al tuo punto di osservazione, quanto imprese e istituzioni sono aperte all’idea di utilizzare strumenti di facilitazione e partecipazione per favorire il coinvolgimento delle comunità?
L’esperienza degli ultimi anni, e in particolare degli ultimi mesi, dice che la partecipazione e il coinvolgimento delle comunità o, in senso più ampio, degli stakeholder, è un tema di diffuso interesse sia nel mondo delle imprese sia in quello delle istituzioni. In particolare ravviso un’accelerata significativa nel contesto aziendale data, con ogni probabilità, dai mutati contesti esterni che stanno progressivamente rafforzando il “potere di influenza” degli stakeholder rispetto all’agire di impresa. Faccio riferimento alle pressioni che i contesti finanziari e sociali sono in grado di imprimere alle imprese premiando chi incentra il proprio agire su una governance estesa di sostenibilità e sul rispetto di diritti e diversità dei cittadini/lavoratori. Come indubbia è la richiesta rivolta al mondo delle imprese tutte, pubbliche o private che siano, di ridurre i propri impatti ambientali. La concentrazione di queste “pressioni”, gli obiettivi stringenti richiesti, l’evidenza della condizione ambientale nella quale viviamo impongono alle organizzazioni di costruire relazioni e reti di “alleati” per continuare a prosperare sotto ogni aspetto ESG. Da quo la disponibilità crescente a utilizzare la partecipazione e, in particolare, ad agirla attraverso i metodi – decisamente efficaci – della facilitazione.
A questi “fattori abilitanti” indubbiamente si aggiunge un mutato contesto normativo a livello europeo, a partire dalla direttiva CSRD in tema di reporting, che rendendo obbligatoria per una vasta platea di soggetti la rendicontazione, nei fatti rende “obbligatorio” un percorso di apertura, ascolto e coinvolgimento dei portatori di interesse. L’esempio principe è la realizzazione della matrice di materialità, oggi “potenziata” da quella che si definisce “doppia materialità”, ma questo – come detto – è solo un esempio.
Quali sono i soggetti più sensibili al community engagement e quali, al contrario, quelli che oppongono maggiore resistenza?
Non ravviso una particolare resistenza a livello “settoriale”. Mi pare, più semplicemente, che l’adozione di strumenti, tecniche e percorsi di engagement sia un fattore culturale, ovvero dato dallo stratificarsi delle esperienze.
Per farla semplice: le organizzazioni che hanno avviato da maggior tempo un percorso di sostenibilità sono quelle che comprendono prima il bisogno di estendere la partecipazione e la “responsabilità decisionale”.
Esistono tuttavia anche casi di soggetti che già operano in modalità “partecipativa” e non lo collegano al tema della sostenibilità. Questo per dire che essere disponibili all’ascolto è, appunto, un tema di approccio e di visione a cui, come si diceva prima, tutti stanno comunque tendendo, ciascuno muovendo i propri passi, calibrati alle opportunità e alle capacità a disposizione.
Sulla base dell’esperienza professionale coinvolgere la comunità e gli stakeholder in un dialogo è sempre conveniente? Oppure ci possono essere delle controindicazioni?
Ciò che dico sempre è che non esiste un Trattamento di Stakeholder Engagement Obbligatorio! Per questo è bene aver chiaro sempre i propri obiettivi e capire quanto e se aprirsi a un processo partecipativo.
Ritengo che la variabile da tenere in considerazione in questi casi non sia tanto la “convenienza” quanto la “responsabilità”. A esempio: la stesura di un piano industriale prevede enormi responsabilità in capo a chi dirige un’organizzazione. Indubbiamente questi possono coinvolgere gli stakeholder per definire gli indirizzi strategici (è il caso, appunto, della materialità), ma non è a tutti gli stakeholder che posso chiedere di assumersi la responsabilità e l’onere di scelte che riguardano, a esempio, investimenti finanziari di grossa portata, apertura di nuove sedi, e cosi via.
Occorre, a parer mio, estende il processo decisionale a fisarmonica e in relazione a quanto – in maniera trasparente – posso e voglio chiedere ad altri soggetti di prendersi impegni e responsabilità.
A prescindere, però, da quanto il processo di esteso e aperto, l’unica vera controindicazione è non dare seguito a quanto deciso assieme. Se chiedo ai cittadini indicazioni o idee su delle linee di investimento sul territorio, la richiesta è – a esempio – per un parco giochi, accetto di farlo…e non lo faccio… il processo non solo decade, ma genera un grosso problema reputazionale e di fiducia che, con grande fatica e con esito incerto, si può tentare di recuperare.
In sostanza: se si apre alla co-progettazione e ne si accettano gli esiti allora poi si da corpo. In fin dei conti la comunicazione, la “messa in comune”, si fonda sulle azioni e i comportamenti, non sulle parole.
In passato gli strumenti di partecipazione sembravano avere maggiore accoglienza e impiego all’interno di un certo orientamento politico. Si può ancora affermare che la cultura della partecipazione sia “di sinistra”, ammesso che lo sia mai stata?
Direi di no, anche perché come correttamente detto “sembravano”, ma forse non lo erano più di tanto. La partecipazione che funziona, la facilitazione che porta a casa risultati, è quella che poggia sul doppio asse produzione-partecipazione. In sostanza, e come detto: non basta parlare e ascoltare le parole di altri, occorre che dalla partecipazione sfoci la produzione, ovvero la messa a terra, il raggiungimento degli obiettivi.
A me pare che alcuni contesti siano sempre stati molto partecipativi, ma altrettanto molto poco produttivi o, nei migliori dei casi, con una “produzione scelta da pochi”, cioè non come diretta conseguenza del momento partecipativo.
Oggi credo che la cultura della partecipazione sia connessa di più, come anticipavo, alla comprensione che esiste un bisogno relazionale e di con-senso, cioè di costruzioni di significati condivisi. Solo attraverso la generazione del con-senso è possibile avere una governance di sostenibilità “estesa” e costruire le condizioni per affrontare le “pressioni dei fattori abilitanti” di cui dicevamo in apertura.
L’unica “differenza” che posso forse notare è che si giunge alla medesima comprensione magari partendo da due punti di partenza diversi: uno più incentrato sull’obiettivo economico, e uno più sui “diritti”. Elementi che, peraltro, trovano connessione e compimento proprio nella partecipazione e nella governance di sostenibilità.
*46 anni, torinese di adozione migrante dal lago Maggiore, è Partner di Amapola Società Benefit, società di consulenza specializzata in sostenibilità e comunicazione.
Specialista in stakeholder engagement, innovazione sociale, reporting Alberto è formatore, facilitatore e speaker.
Fuori dal contesto professionale, Alberto… corre. In primis dietro a suo figlio Bruno: un concentrato di energia e sorrisi. Il più spesso possibile su ogni tipo di sentiero: il trail running lo ha conquistato facendogli capire che correre non porta lontano, ma molto vicino: dentro di sé.